giovedì 30 luglio 2009

Storie brevi #1: Una notte

Ogni tanto mi diletto nello scrivere. Stasera ho buttato giù un raccontino senza pretese. Nulla di eccezionale. Anche un po' banale, per certi aspetti. Ma lo voglio condividere qui.

Una notte


Stanotte non riesco a prendere sonno.
Ho letto, ho ascoltato musica, ho persino provato con la camomilla. Niente. Gli occhi non ne vogliono sapere di chiudersi. E l’encefalo non ha intenzione di andare in stand-by almeno per le 4 ore che mancano al suono della sveglia. E va bene. Così sia.
Mi vesto, prendo le chiavi e salgo in macchina. È un freddo lunedì mattina. Forse anche io sono un po’ freddo. Ma non m’importa. Le cose vanno come è scritto che vadano. Me lo ripeto spesso, me ne faccio sempre una ragione. Dopo un po’ uno si abitua anche a farsi una ragione su tutto.
La strada scorre veloce, la macchina è illuminata ad intermittenza dai lampioni sopra la mia testa. Sento un rumore rapido e sordo da sotto le ruote. Riccio imprudente. Se ne farà una ragione, anche lui. Mi accendo una sigaretta e la butto prima della metà, mi sento così noiosamente apatico che non ho neanche voglia di fumare. Avete presente quei momenti in cui vi sembra che vi muoviate per inerzia? Che ogni cosa che fate sembra fatta controvoglia, anche respirare diventa una rottura di palle.
Devo alzare il riscaldamento per evitare di morire assiderato. Dicono sia uno dei febbrai più freddi degli ultimi 15 anni. E la mia 126 non è che sia proprio in formissima. Per quanto riguarda le funzioni primarie (vedi: accelerare, frenare) non posso lamentarmi, ma per ogni cosa in più (vedi: riscaldamento, clacson, sterzo) non raggiunge proprio i massimi livelli. Però ci sono affezionato. Me l’ha venduta, due anni fa, un vecchietto veramente amabile, una persona squisita. – Era di mio figlio – mi disse – poi un giorno il cancro se lo è portato via, ed io la patente non l’ho mai avuta. Ho sempre preferito i pedali! – Mi fece un prezzo miserabile. Ancora oggi mi verrebbe da andarlo a trovare e dargli dei soldi o fargli dei lavori. Dopo il pagamento mi offrì pure un caffè: davvero un’ottima persona.
Non sono uscito con l’intento di raggiungere un luogo preciso, stasera, ma ho imboccato una strada che conosco molto bene. E ora che sono qui posso già immaginare dove spegnerò il motore.
Infatti.
Questa piazza non è molto illuminata ed io mi metto nel punto più buio. Mi accendo una sigaretta e mi metto a fissare quella finestra. La luce è accesa, come immaginavo.
È tanto banale quanto inevitabile: i ricordi iniziano a sgorgare più che mai limpidi. Ogni parola, ogni gesto che questa piazza ha visto. Momenti che sono rimasti nella mia testa e in quella di tutti gli altri come attimi eternamente presenti. Quando vengo qui, per un attimo mi scordo cosa è successo e mi sembra di rivivere quelle situazione come se stessero accadendo davvero. Ognuno di noi era felice. Spensierati come bambini. Giocavamo a fare i finti sessantottini, i finti intellettuali.
Poi ecco che vedo l’ombra della sua testa avvicinarsi alla finestra. Vedo il braccio che si allunga. La finestra si apre. Io rimango fermo, consapevole della mia invisibilità. Ma sono così preso dal momento che mi dimentico completamente del puntino luminoso di colore rosso della mia sigaretta.
– Sei tu? – dice la voce alla finestra. Non rispondo, sperando che abbandoni le speranze torni dentro.
– Sei tu? – ripete.
– Perché ti sei affacciato? – domando, facendomi coraggio.
– Nessun motivo in particolare. Ho sentito il bisogno di guardare fuori.
– Mi hai sentito arrivare?
– No. Non sapevo che fossi lì. Però è successa una cosa curiosa: avvicinandomi alla finestra ho sentito come un attrazione ed una paura insieme. Sapevo che qualcosa mi aspettava fuori.
– Immagino che tu aspetti ancora le mie scuse.
– A dire il vero no. Non più. Sai cosa? Me ne sono fatto una ragione.
– So cosa intendi…
– Dici? Non credo, visto che sei venuto fin qui guidando.
– Hai ragione. Scusami.
– Poi, da quel giorno io c’ho pensato su parecchio. E sto iniziando a convincermi che non sia stata colpa tua. O comunque non solo colpa tua. Certe notti sogno di essere così fin da bambino. Sogno che l’incidente non è mai avvenuto. Che anche quando passavamo le giornate tutti insieme io ero già così.
– Lo so, non è la cosa migliore da dire. E io sono proprio l’ultimo a potertela dire, ma penso che sia già tutto scritto. Che sia andata così perché è così che doveva andare: non è colpa di nessuno.
– Te l’ho detto. Me ne sto iniziando a convincere. Diciamo che mi sento alleggerito.
– Per quanto suoni falso e ipocrita mi fa piacere.
– Vuoi salire a bere qualcosa?
– Dici sul serio?
– Sì.
Chiudo la macchina. Mi avvio al portone della palazzina. Mi giro un attimo per dare uno sguardo sulla piazza e rivedo quelle scene: noi, seduti ai tavolini di quel bar, a bere la nostra birra giornaliera, a ridere delle notizie dei giornali e a citare Fabrizio De André.
Salgo le scale. Arrivo alla curva dopo la quale troverò quella porta. Ne intravedo il primo angolo. E come vedo una delle due ruote capisco che lui è lì che mi aspetta. Non ce la faccio. Scappo. Riscendo le scale correndo come un pazzo. Salgo in macchina. Accendo e accelero più che posso. Trenta secondi dopo sto piangendo.
Credo che ormai per questa notte il sonno non arriverà. Girerò in macchina per altre due ore. E poi timbrerò il cartellino.

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